In Abitare con libertà (Casa Vogue 1969, ora in Superstudio, Opere 1966-1978 a cura di G. Mastrigli, 2016. Qui un estratto) Adolfo Natalini fa emergere la prospettiva con cui il gruppo Superstudio approccia il tema dell’arredamento, l’articolo si apre così:
“Si parla molto – troppo, forse – di spazi mobili, consumabili, trasformabili. Si ricercano metabolismi e cinetizzazioni, si sostituisce a un’architettura di «firmitas, utilitas, venustas» un’architettura di «mobilità, funzionalità, fruibilità». Insomma si cerca di muovere ciò che sta fermo invece di cercare di fermare ciò che si muove troppo. Il problema non è quello di cercare una casa che mimi il movimento, che segua l’uomo che si muove, vive, consuma e muore. Ci muoviamo già abbastanza noi per rendere mutevole l’architettura, cambiandone i rapporti col passare del tempo, col trascorrere delle stagioni e della vita. Almeno la casa sia un punto fermo, un centro di gravità”.
Riporto queste considerazioni, ritrovate da poco, perché aderiscono ex-post alle intenzioni che mi hanno animato nel lavoro di ristrutturazione di CASA BF. Mi piacerebbe ovviamente che le intenzioni apparissero anche dal risultato formale, parimenti necessarie e sostanziali come le parole di Natalini. Mi era stato chiesto di ripensare la porzione di un articolato appartamento in un edificio storico del centro di Reggio Emilia affinché vi si potesse trasferire la zona cucina – pranzo: bisognava recuperare un grande ambiente precedentemente frammentato, confrontarsi con un impostante soffitto ligneo e con murature antiche in laterizio evitando un risultato “rustico”, contemplare necessità e funzioni (filtrare un ingresso, cucinare e stare, ridare luce a particolari di valore come un capitello incastonato nel pavimento, contenere molti oggetti).
Ho dapprima restituito unità alla sala, liberandola da tutto ciò che ne frammentava l’ampiezza e limitava il godimento degli elementi costruttivi storici, per poi utilizzare il grande spazio recuperato (circa 40 mq) come una campo senza vincoli in cui collocare pochi solidi liberi in relazione reciproca. Credo da tempo che una cucina sia riducibile a un piano di lavoro in marmo di Carrara e un tavolo in massello di legno: oggetti pesanti entrambi, inamovibili o quasi, due fondamenti su cui si appoggia la stessa idea di casa per assolvere alle funzioni di cura e ospitalità. La composizione si origina dall’interazione di tali elementi (banco e tavolo) con un terzo solido, un volume contenitore che unisce e separa, che stabilisce le relazioni di corrispondenza e di specificità delle aree di pertinenza di ciascun elemento. Non provo a dire il processo che ho immaginato, prendo in prestito le parole di Natalini, non riuscirei a riprodurne la stessa lucida intenzionalità:







“Possiamo pensare a una casa qualsiasi, sufficiente a riparare e ad assicurare lo svolgersi delle funzioni primarie della vita, senza problemi quindi… possiamo pensarla vuota e poi possiamo cominciare a mettervi dentro dei pezzi, uno per volta. Pezzi che come unica caratteristica comune hanno quella di significare qualcosa, di essere figure o personaggi, testimonianze più o meno archeologiche […] Ogni oggetto ha un significato magico: ogni oggetto si presenta come sistema chiuso in se stesso e si avvicina agli altri per omogeneità o complementarità. L’omogeneità deriva solo da un identico grado di compiutezza formale; la complementarità dal costituire insieme un sistema non privo di significato. Tutti questi pezzi si accostano semplicemente per mezzo di schemi geometrici semplici e non interferiscono sostanzialmente sulla struttura della casa: se quest’ultima ha una sua realtà architettonica, questa deve esser rispettata. Se non è un prodotto di architettura, non ha senso il tentativo di renderle dignità mediante operazioni più o meno cosmetiche. Il principio è quello del minimo sforzo: una serie di azioni senza violenza, tendenti a mantenere chiusi i sistemi non comunicanti e insieme ad affermare una sola idea, la più semplice possibile. Un’idea chiara di un abitare sereno ed esatto. Un abitare classico che usa le cose nel modo giusto, riservando per sé un’area sgombra per la riflessione e disponendovi intorno le cose come immagini”.
I personaggi del mio progetto sono indubbiamente il banco in marmo di Carrara e il tavolo in massello di quercia, animano lo spazio recuperato stabilendo relazioni e campi gravitazionali con cui attrarre le vite degli abitanti della casa. Sono grandi solidi che affermano un’idea di durata e di autonomia. Li ho immaginati classici e contemporanei assieme, in materiali pregiati per accogliere i segni del tempo senza permanere immutati e senza perdere bellezza. L’intenzione è la stessa: superfici esterne lisce, levigate, adatte a riflettere la luce che dicono il pregio, parti convesse, come scavate, scabre o striate che significano la materia. Entrambi sono frutto del lavoro di artigiani consapevoli e attenti che hanno interpretato e dato sostanza alle mie idee e che ringrazio per quanto di proprio hanno apportato al lavoro.









Ritorno ancora sul testo di Natalini per condividere la necessità di riconoscersi in categorie classiche con l’intento di collocarsi fuori dalle mode, ma anche e soprattutto per non sfuggire alle responsabilità implicite nel mestiere di architetto. Progettare la casa d’altri implica un processo di trasformazione: raccogliere desideri e necessità della committenza, setacciarli attraverso le consapevolezze teorico pratiche acquisite e restituirli in termini spaziali. Mentre facciamo questo dovremmo rimanere consapevoli che la nostra creazione modificherà per un tempo ragionevolmente lungo le geometrie esistenziali di altri individui.
“Vivere in casa non è un’operazione spontanea, naturale, ma richiede una grossa dose di cultura, di raziocinio e di poesia. Ogni casa si struttura come la proiezione spaziale dei desideri, delle ambizioni, delle necessità e delle storie dei suoi abitanti. La casa diventa un’immagine: il ritratto di chi la usa. E come complesso di spazi, oggetti, immagini e intenzioni, si sovrappone agli inquilini, modificandone il comportamento. Nasce così un insieme di azioni e reazioni, tanto più complesse e determinanti quanto maggiore è l’uso che si fa della casa e quanto più questa coinvolge i suoi abitanti. Ormai dovrebbe essere chiaro che la casa non è un bene di capitalizzazione, ma un bene di consumo: e insieme è anche vero che non siamo solo noi a consumare la casa, ma è anche la casa che consuma noi. […] Se lo scopo di un arredamento è quello di permettere i rapporti umani, tutto quello che ci mettiamo intorno deve essere sempre e solo una testimonianza dei nostri pensieri e affetti: una serie di oggetti come messaggi, conservati in bottiglia, delle nostre storie pubbliche e private”.
Chiudo con un’immagine per me eloquente, la parete sul lungo mobile credenza da cui si affacciano “oggetti come messaggi” degli abitanti di CASA BF.

Progetto architettonico e design arredi arch. Taryn Ferrentino
Grazie a: Barbara, Federico, Alberto e Giovanni; i falegnami Lodovico Bertani, Filippo Benecchi e Alessandro Meteori della cooperativa Cigno Verde – progetto Nodi; Marmi Fontanelli; Davide e i suoi mastri.



